A casa mi dicono che non è il caso, che poi mi prende il freddo tutto addosso, che a dicembre a stare immobili ci si rimette la salute. Ma io insisto e decido che dopo almeno vent’anni voglio andare e stare lì, fermo e per conto mio, a guardare la squadra che un tempo sentivo appartenermi come le strade di questa città, come gli scogli e il lungomare, e come ogni svolta che conosco a memoria, perpendicolare fra due vie.
Mi fanno indossare due maglie e i pantaloni felpati della tuta, un giaccone paravento e la mia vecchia berretta di lana morbida.
Entro al Benelli scortato dai miei figli e mi posiziono a bordo campo, con la coperta a scacchi sulle gambe e il bavero alzato. Metto il freno alla seggiola a rotelle e punto lo sguardo tutto intorno per scoprire se ciò che vedo sia ancora miracolosamente riconoscibile.
Intanto sfila in campo la Vis che veste di azzurro e rosso mentre qualcuno – rivolto alla tribuna – urla a gran voce “entusiasmo”. Sorrido e penso fra me che “entusiasmo” sia una delle mie parole preferite, in grado di attivare uno stato d’animo sorridente e la convinzione della realizzabilità di tutto.
Mi accorgo di piccole e grandi cose che nella mia passata e parzialmente immaginifica memoria, sono certamente cambiate. E indubbiamente mi accorgo che su quel prato stanno giocando davanti a noi ragazzi giovanissimi, con le gambe di ferro e la vis corporis.
Passano i minuti e io tifo ad ogni colpo di tamburo. Ho temuto il freddo ma il freddo non sta davvero arrivando perché da questa parte il sole colpisce le tribune e rimbalza sull’erba.
Una punizione dritta tirata in pancia al portiere rivale in completino giallo, piccolo come un coriandolo che si fa volare preciso sulla traiettoria tesa del pallone.
C’è un ritmo costante di svariate azioni vissine che spostano e bloccano il gioco sulla porta della squadra avversaria senza mai realizzare nulla e che fanno solo alzare le braccia al cielo ad afferrare una invisibile e disperata smania di vincere.
Il fischio della fine del primo tempo e un bicchiere di vin brulè.
Poi il secondo tempo e la speranza rinnovata di concludere. La testa che ruota a destra e sinistra e finalmente un boato colpisce la rete dietro al pallone che è entrato. Mi sento salire di un metro e mi isso sui braccioli.
Il pareggio mi riattiva il senso di gravità pigiato sul cuscino della seggiola ma alla fine l’entusiasmo ha avuto ragione e io volo di nuovo con la vittoria del secondo goal.
Raffaella Marini